L’intelligenza artificiale è una dialettica

di Claudio Kulesko

Erica, un’androide creata da Hiroshi Ishiguro e Kohei Ogawa, foto di Justine-Emard
Erica, un’androide creata da Hiroshi Ishiguro e Kohei Ogawa, foto di Justine-Emard, da www.wired.it

Our identity as humans can exist only against
the background of impenetrable nature
Slavoj Žižek


Sull’intelligenza artificiale è stato detto di tutto.
Non so neppure più quanti saggi accademici, critici e divulgativi escano ogni anno, anche solo sul mercato europeo. Quanti post siano stati scritti sui forum, né quanta fantascienza sia stata prodotta sul tema, o quanti videogiochi.

Anche dopo tutti questi anni, la prospettiva più indagata è quella etica e sociopolitica. L’unica differenza, ora che l’intelligenza artificiale esiste davvero e fa passi da gigante, sta nel fatto che – anche grazie alla polarizzazione operata dai social nei nostri cervelli da primate – ci si divide tra sostenitori e oppositori dell’era delle macchine, portando ogni volta il dibattito sul piano utilitaristico ed economico, emancipativo o distruttivo.
L’umanista medio si concentra sulla superiorità umana in quanto a creatività, immaginazione, pensiero laterale; oppure sulle possibilità intrinseche del mezzo, sui margini di miglioramento della vita quotidiana. Se, invece, si tratta di pensiero speculativo, il massimo che riusciamo a fare è magnificare l’intelligenza artificiale, derubricando l’umano a fenomeno superato, persino reazionario. Uno stilema che ha condotto ad assurdità logiche quali il cosiddetto Basilisco di Roko.
Eppure, sarebbe del tutto improbabile affermare che la filosofia sia impreparata all’ascesa della cognizione sintetica, o che l’emergenza di quest’ultima rappresenti un trauma al cuore del pensiero moderno. La tradizione occidentale è, anzi, fin troppo munita di strumenti di analisi efficaci e più che adeguati al compito.

Il problema è che (fortunatamente, forse) non possediamo una definizione univoca di intelligenza.
I pensatori che hanno costellato la storia della filosofia, da Senofane a Negarestani, hanno offerto prospettive tra loro molto diverse, al punto che la classica formuletta bergsoniana-cognitivista – «l’intelligenza è la facoltà di risolvere problemi» – non sembra più adatta a rivestire il ruolo di paradigma fondativo.
E se, come sostenne Gilles Deleuze, l’intelligenza non fosse un semplice compitino, consistente nel risolvere un problema (qualcosa di realizzabile, appunto, anche da una macchina), ma la facoltà stessa di individuare e, soprattutto, elaborare nuovi problemi?
Da questo punto di vista, l’intelligenza artificiale non sembra in grado di proporre, quantomeno non in modo diretto e volontario, problemi degni di nota. In compenso, essa è molto abile nel risolvere gli enigmi della complessità.

E se l’intelligenza fosse, invece, la capacità di individuare ed estrapolare pattern astratti, come suggerisce l’idealismo?
Da un lato, in tal caso, la dialettica esprime la profondità metafisica di un insieme che chiude la catena degli insiemi (l’idea di oggetto tagliente che contiene ogni singolo oggetto tagliente), a sua volta suddivisibile nell’elenco progressivo delle diramazioni: dall’insieme fondamentale a tutte le sue possibili evenienze (dall’oggetto tagliente all’artiglio, dall’artiglio al coltello, dal coltello alle forbici e così via).
Dall’altro, la dialettica incarna il gioco di forze che si viene a creare tra positivo e negativo, affermazione e negazione, tesi e antitesi, avanzata e resistenza – c’è un motivo, in fondo, se le cose non mutano di colpo, in modo repentino e indistinto. L’idea che vi sia un agente di livello “ulteriore”, così come quella di un insieme di grado terminale, non è stata inficiata da Russell e dal suo molesto barbiere anti-platonico. Ponendo un sistema in divenire, infatti, si è in grado di ipotizzare un’evoluzione temporale, nella quale un insieme è costantemente se stesso e l’insieme di grado superiore che lo contiene (un trucchetto già usato dai teologi francescani per neutralizzare le critiche alla prova ontologica).
L’unione delle due dialettiche, quella antica e quella moderna, offre uno sguardo di insieme sull’universo in quanto tale (l’essere, la natura, il cosmo, l’Uno o quel che vi pare), sarebbe a dire sul mondo come meccanismo astratto.
Anche in questo caso, la capacità della macchina di riconoscere oggetti, a partire da un set di dati, e di inserirli all’interno di un insieme specifico, non sembra poter eguagliare quella umana.
D’altra parte, tuttavia, l’intelligenza artificiale sembra in grado di monitorare e riportare mutamenti su piccola e, soprattutto, larghissima scala, fornendo un quadro generale, a grana grossa, sul funzionamento della natura.
La specie umana, in sostanza, si porta a casa il monopolio sul delirio metafisico. Che non è poco.

In ultimo, si potrebbe addirittura affermare che l’intelligenza sia la facoltà di accedere al campo comune del “dare e ricevere ragioni”, come notano Wilfrid Sellars e Robert Brandom. Si tratta di un semplice movimento di delucidazione, in cui ogni agente dimostra agli altri di essere razionale, di condividere un lessico e un senso generale. Ma anche del processo essenziale attraverso cui lessico e senso sono prodotti e dati in modo relazionale, collettivo.
Si tratta, a ben vedere, di un territorio in parte condiviso con quello che Hegel denomina “Spirito”, ma anche con l’“intelletto generale” di Marx.
Le macchine possono interfacciarsi tra loro, certo. Ciò che non possono ancora fare, tuttavia, è interrogarsi a vicenda, chiarificare i propri concetti e le metodologie da esse impiegate – o, meglio, a esse imposte. Ciò che esse sanno fare, in massimo grado, è farci discutere, metterci in relazione e in contrasto gli uni con gli altri.

Com’è ovvio, le definizioni fornite nel corso del tempo non si esauriscono qui. Queste sono solo alcune tra quelle che, personalmente, ho ritenuto più rilevanti – nonché quelle che un tecnico rigoroso si limiterebbe a liquidare storcendo la bocca.
Non si tratta di sminuire, ancora una volta, l’intelligenza delle macchine, o di segnare in modo presuntuoso i limiti teorici del suo sviluppo. Sono più che convinto che l’intelligenza artificiale rappresenti qualcosa di diverso dall’intelligenza umana – e che, in quanto tale, essa stia al nostro cervello così come quest’ultimo sta al cervello di un lemure, o all’imperscrutabile intelligenza di un organismo vegetale.
Non è un caso, tuttavia, che uno degli eventi che più ha contribuito alla versione contemporanea di ciascuna di queste definizioni, sia stata la diatriba tra teoria della relatività e meccanica quantistica – che ha coinvolto non solo la fisica e la filosofia, ma anche la linguistica, l’informatica e la matematica.
È stato questo preciso momento storico e culturale, di fatto, a produrre la nostra epoca, le sue tensioni, il suo immaginario. All’interno di uno spazio pubblico di ampiezza globale, gli esponenti di campi e settori tra loro distanti (e spesso antagonisti), si sono confrontati sui meccanismi fondamentali della natura, producendo, esaminando e passando al vaglio un quantitativo di informazioni a dir poco colossale – contribuendo, come ladri, a scuotere di dosso all’epoca moderna fino all’ultima certezza.

L’ormai noto esperimento della “stanza cinese”, ideato da John Searle nel 1980, distingue tra sintattica e semantica, ponendo il confine tra intelligenza umana ed artificiale nella capacità di collegare dei simboli a una rete di significati – a loro volta, si potrebbe aggiungere, collegati a esperienze personali, simbolismi religiosi e culturali, idiosincrasie, metafore e analogie inconsce. La macchina, all’inverso, si limiterebbe a rispondere alle richieste dell’operatore utilizzando i comandi inseriti da qualcuno nel proprio programma. Tale distinzione è stata sottoposta a stress (seppur non confutata) dall’invenzione di sistemi capaci di apprendere.
Anche prima del deep learning, tuttavia, l’esperimento mentale di Searle poneva problematiche consistenti rispetto alla differenza tra utilizzo e comprensione. Siamo davvero sicuri di essere coscienti delle parole che usiamo? In altre parole, sono Io a parlare o è, invece, l’atto stesso di parlare a far emergere un Io (come supponeva un altro importante esperimento mentale, quello dell’“antenato Ryleano” di Sellars)?
Inoltre, cosa si intende per significato? Esiste un preciso momento in cui la sintassi si proietta e si sposta dall’emissione di suoni all’oggetto concreto nominato da qualcuno? È davvero necessario conoscere il significato di ciò che si dice per essere definiti “intelligenti” o persino “umani”?
In bocca al lupo, allora, a chi si occupa di filosofia, matematica, fisica teorica, occultismo, storia delle religioni e via dicendo.

Se ci si fa caso, il confronto con la macchina, e i processi emergenti che stanno riplasmando la tecnologia, le scienze e la vita umana in generale, ha tutta la forma di un progetto di ricerca. Esso ci ha costretti, e ci costringe tuttora, a mettere in dubbio e reinterrogare tutta una serie di nozioni che forse non davamo per scontate, ma nei confronti delle quali nutrivamo speranze epistemiche. Ogni definizione di intelligenza, di fatto, è un tentativo di giungere a una verità – anzi, alla Verità maiuscola su noi stessi e sul mondo.
L’idea di base è che il meccanismo della nostra mente (attenzione, non del nostro cervello) rifletta i meccanismi fondamentali dell’universo. È questa idea che, ora, ci troviamo a dover confermare o confutare.
Detto in parole semplici, le carte sul tavolo vengono rimescolate a ogni passo, senza che siamo in grado di elaborare un quadro completo, non solo della situazione attuale o del futuro ma, soprattutto, del nostro passato. Più di duecentomila anni di evoluzione biologica e culturale (di gran lunga di più, se si considera le altre specie di homo), si ritrovano a dover fare i conti con se stessi, obbligati a cercare la sintesi di un archivio sterminato.
Anno dopo anno, ciò che sappiamo su noi stessi in quanto specie – ciò che siamo in grado di dire su homo sapiens – si espande sempre più.
Come ogni buon processo dialettico, stiamo procedendo per esclusione. È questo che mi induce a pensare che l’intelligenza artificiale non rappresenti tanto un obiettivo o uno stato di transizione finale (la famosa timewave zero di psichedelica memoria), né la semplice elaborazione di un agente destinato ad assistere e servire l’umano. La cognizione sintetica è un mezzo: un processo, anzi no, un veicolo – in senso anche spirituale, se si vuole – attraverso il quale la specie umana diviene in grado di individuare e fissare la propria specificità universale.

Un affare niente male, se ci si sofferma a riflettere. Siamo ancora superiori alle macchine e, in più, siamo sempre più consapevoli di chi siamo, di cosa siamo in grado di fare, della nostra storia e dei nostri limiti.
In tal senso, non è vero che l’evoluzione dell’intelligenza a base silicio stia segnando l’estinzione dell’intelligenza a base carbonio. Tutt’altro.
L’unico limite, data la schiacciante superiorità quantitativa della materia incosciente rispetto a quella autocosciente, consisterà nel capire se gli oggetti possiedano o meno un qualche accesso privilegiato agli altri oggetti, ossia se l’intelligenza artificiale sia in grado di comprendere il mondo in modo speciale rispetto all’essere umano.

Non si tratterebbe, in fin dei conti, di una nuova forma di empatia?

 

Claudio Kulesko

Claudio Kulesko è filosofo, scrittore e traduttore. Con NERO è autore dell’antologia di narrativa speculativa L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto (2022). Per Piano B ha pubblicato Ecopessimismo. Sentieri nell’Antropocene futuro (2023).